giovedì, Novembre 21, 2024
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I biomarker: nuovi strumenti per la diagnosi di Alzheimer o altra demenza

A supporto degli strumenti già a disposizione per la diagnosi di demenza, sta emergendo l’utilità di diversi tipi di biomarker. Essi sono molecole dosabili in campioni biologici (come sangue o liquor cefalorachidiano). I biomarker sono utili alla formulazione di una diagnosi perché l’aumento o la diminuzione dei loro livelli possono essere spia di una patologia sottostante.

La diagnosi di sindrome dementigena, oggi, è prevalentemente clinica, basata su una storia di declino cognitivo che interferisce con lo svolgimento delle attività quotidiane. Accanto alla visita specialistica, nella pratica clinica si ricorre spesso a prove di imaging e test neuropsicologici. Questi esami sono utili per supportare la diagnosi e definire la causa della demenza. In questo modo, sarà possibile definire la linea terapeutica più adeguata.

I biomarker potrebbero rappresentare uno degli strumenti promettenti per una diagnosi precoce: sembra che la riduzione dei livelli liquorali di Aβ42 preceda di circa 10 anni l’insorgenza dei primi sintomi di demenza.

Vediamo quindi quali sono i biomarker più studiati per la diagnosi di demenza.

Stato dell’arte

Le tre molecole principali individuate come potenziali biomarker per la malattia di Alzheimer sono Aβ42, T-tau e P-tau, tutte dosabili nel liquido cefalorachidiano.

L’Aβ42 (forma a 42 amminoacidi della proteina A-beta) si ritrova in quantità ridotte nel liquido cefalorachidiano dei pazienti affetti da Alzheimer, a causa della deposizione della proteina stessa nelle placche di amiloide cerebrali, caratteristica distintiva di questa patologia.

Al contrario, i livelli totali della proteina tau (T-tau), altra proteina con un ruolo patogenetico nell’Alzheimer, risultano aumentati, a causa della perdita delle cellule neuronali. Tuttavia, i livelli di T-tau nel liquido cefalorachidiano non sono specifici, dal momento che si elevano anche in caso di trauma cranico, ictus, o malattia di Creutzfeldt – Jakob.

Allo stesso modo, anche i livelli della forma fosforilata di tau (P-tau) si elevano in corso di Alzheimer, riflettendo la graduale formazione di grovigli neurofibrillari.

Altri biomarker sono, invece, meno studiati. Nel liquor di pazienti con Alzheimer si sono osservate concentrazioni elevate di NFL (la proteina leggera dei neurofilamenti), NSE (enolasi neurone-specifica), VLP-1 (una molecola che funziona come sensore per il calcio all’interno dei neuroni), HFABP (trasportatore degli acidi grassi neuronale) e YKL-40 (marker di attivazione della microglia e degli astrociti).

Dal momento che il prelievo del liquido cefalorachidiano risulta più complesso e doloroso per il paziente, sono stati studiati anche biomarker presenti nel sangue. Tra questi ultimi, al momento, l’unico che sembra correlare con la malattia è T-tau; per tutti gli altri, non si sono osservate differenze significative tra i pazienti e i controlli sani.

Utilizzi presenti e futuri

Allo stato attuale, i biomarker sono indagati solo a scopo di ricerca (soprattutto nei trial clinici per lo studio di nuovi farmaci, nei quali i biomarker sono spesso utilizzati come marcatori di risposta al trattamento). Il loro dosaggio, infatti, non è disponibile in tutti i laboratori. Inoltre, non ci sono ancora metodiche di dosaggio standardizzate. Altro limite all’utilizzo routinario dei biomarker, come detto, è la necessità di effettuare una puntura lombare, procedura meno diffusa e più invasiva del prelievo venoso periferico. Infine, l’accuratezza diagnostica di questo strumento si riduce con l’età. Nella popolazione anziana, anche in persone non affette da demenza, si osservano livelli alterati di queste molecole.

Saranno quindi necessarie ulteriori ricerche per stabilire con maggiore certezza la loro affidabilità e per individuare metodiche diffuse sul territorio che ne permettano il dosaggio. 

 

Dott.ssa Giulia D’Alvano (Dottoressa in Medicina e Chirurgia)

 


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