Supporto ai caregiver: l’esperienza di Stefania con il suo papà e l’Alzheimer
Prendersi cura di sé e dell’altro
Ricevere una diagnosi per sé o per un proprio familiare non è argomento facile da trattare. Questo tema è sempre accompagnato da un carico emotivo gravoso per chi lo vive in prima persona, ma anche per chi assiste qualcuno che ha o avrà sempre più bisogno di cure e vicinanza da parte degli altri. Proprio per questo motivo però è importante parlare di supporto psicologico ai caregiver e, nello specifico, oggi parleremo dell’esperienza di chi vive accanto a una persona con Alzheimer o altra demenza e cerca ogni giorno di farci i conti.
“Dalla teoria alla realtà” è una rubrica del progetto TAM TAM Psicoterapia Sociale in cui, partendo da fatti reali tratti dal quotidiano o dalla letteratura, riflettiamo insieme sulle esperienze di chi ha vissuto sulla propria pelle o comunque da vicino ciò di cui i nostri professionisti ci parlano dal punto di vista della teoria. Il tema scelto questo mese per parlare di benessere psicologico è appunto Curare chi cura – il supporto psicologico ai caregivers.
La scorsa settimana sul nostro canale youtube, la dott.ssa Noemi Guasco (psicologa) ha spiegato chi è il caregiver, ha parlato approfonditamente del carico emotivo vissuto da chi si prende cura di qualcuno e ha posto una domanda molto interessante che c’entra tantissimo con quello di cui parliamo oggi: In modo naturale il caregiver mette al centro della sua quotidianità il proprio familiare in difficoltà ma… se il caregiver, mettendo sempre da parte sé stesso e le sue personali necessità, pensa alla “persona da assistere”, chi assiste “chi assiste”?
Spesso non si presta abbastanza attenzione a chi si prende cura di una persona fragile. Infatti i caregiver dovrebbero avere un loro spazio per elaborare le loro emozioni, sentimenti, per accettare la diagnosi e affrontare i cambiamenti che ne conseguono. Proprio per comprendere i vissuti e i bisogni che si celano dietro la figura del caregiver abbiamo intervistato Stefania che ricopre un doppio ruolo: è un’operatrice socio assistenziale ed è anche caregiver di suo padre con Alzheimer. Senza aggiungere altro vi lasciamo alla lettura dell’esperienza di Stefania.
Ciao, Stefania. Che professione svolgi?
Io sono un’Operatrice socio assistenziale. Faccio assistenza agli utenti che mi affidano, presso il loro domicilio perché penso si possa creare più relazione con gli utenti. Ho lavorato anche in altri ambiti come in case di riposo e in una comunità per disabili. Al momento però lavoro in modo autonomo, prima lavoravo per le cooperative, ma così ho maggiore indipendenza nella gestione dei turni e dei miei utenti, quindi riesco a dedicare anche quei 20 minuti in più all’utente, perché un’ora magari non basta: a volte capita che un’ora non sia sufficiente e invece è importante rispettare i tempi delle persone.
Che reazione si ha alla diagnosi di demenza del proprio caro?
Quando è stato diagnosticato il morbo di Alzheimer a mio padre, ho reagito indossando uno scudo perché era come se io stessi ricevendo la diagnosi di un utente, come se ci fosse il mio titolare a dirmi “devi prenderti cura del signor x che ha questa diagnosi”. In quel momento probabilmente il mio cervello si è fermato e ha detto “facciamo finta che stiamo parlando di un utente”.
Quando poi ho scelto di andare in terapia mi sono accorta che probabilmente dal giorno in cui è arrivata la diagnosi ho usato questa sorta di scudo perché volevo sentirmi ancora OSS. La mia famiglia è invece caduta subito in quel tunnel buio dentro al quale ti perdi completamente. Io invece sono rimasta lucida perché ho immaginato che quella fosse la diagnosi di un mio utente e mi sono detta “ok, l’Alzheimer è una malattia che conosco e so cosa fare e cosa succederà” poi successivamente sono entrata in quelle dinamiche familiari che ti stravolgono.
Quando lavori come Oss invece cerchi di mantenere un certo distacco, perché è un rapporto di lavoro. All’inizio ho iniziato a trattare mia madre come se fosse un familiare di un mio utente e mio padre come l’utente. Ho iniziato a dare consigli, a prendermi carico di quelle responsabilità che un operatore socio sanitario deve svolgere. Per esempio aiutare a gestire la terapia, che è la prima cosa a dover essere fatta, poi a sbrigare le pratiche burocratiche. A mia madre invece è crollato il mondo addosso, mio padre era giovane: una sera mio padre era andato a comprare le sigarette mia madre non vedendolo tornare lo aveva telefonato e lui aveva risposto che non sapeva più come tornare a casa e dove fosse. Sembra una scena da film, ma è da questo episodio che poi abbiamo fatto controlli ed esami tramite cui è arrivata la diagnosi.
Che impatto ha la malattia sul caregiver e quali difficoltà incontra chi si prende cura di una persona ammalata?
L’impatto che la malattia ha sui caregiver è bello tosto. Appena mia madre ha ricevuto la diagnosi, per esempio, ha avuto un crollo emotivo e così tutta la mia famiglia. Mio padre era giovane ed era l’unico a portare i soldi a casa. Quindi sapere che tuo marito non potrà più lavorare, che gli verrà tolta la patente, che ha un malattia degenerativa invalidante… ecco, ti crolla il mondo addosso. Io avevo una madre che stava male a livello emotivo e mio padre con l’Alzheimer, che è avanzato in modo rapido proprio perché era giovane. Ora non può stare più da solo, non riesce a deambulare bene, non riesce a comunicare… dimostra 20 anni di più. Non è in grado di riconoscersi, di riconoscere noi, né di prepararsi un pasto e di tenere cura della propria igiene personale.
Sostenere la diagnosi di Alzheimer non è mai facile e forse la cosa più difficile è capire che ad un certo punto non ci sarà più a livello cognitivo, che avrà bisogno di assistenza come se fosse un bambino. È difficile da accettare che tuo marito non ti riconoscerà più, che non riuscirà a prendere in mano una forchetta per mangiare, non sarà in grado di stare da solo… sapere che il tuo familiare “si è trasformato, non è più lui” (anche se a me non piace molto questa espressione).
A differenza di altre malattie che non toccano la sfera cognitiva, l’Alzheimer ti toglie la capacità di esprimerti e di gestirti. Per un familiare accettare questo non è facile, si fa fatica. È proprio l’accettazione il primo passo da fare, io dico sempre di affidarsi a dei professionisti, a degli psicologi o psicoterapeuti perché credo che come al paziente viene prescritta la terapia, alla famiglia dovrebbe essere lasciato il numero di uno psicologo. Molte volte manca questo passaggio: questa è la diagnosi, se avete bisogno c’è questo sportello. Anche se quel “se avete bisogno” non fa comprendere al familiare che il bisogno già c’è.
Quali ripercussioni ha invece sulla propria vita essere un caregiver?
Il familiare pensa che deve sopportare. Entrano in gioco una serie di cose: innanzitutto la vergogna. La famiglia all’inizio non riesce a comprendere ciò che sta succedendo. Anche a livello culturale non c’è l’accettazione immediata della diagnosi, si pensa sempre che possa essere errata. Quindi si dovrebbe capire che appena viene diagnosticata bisogna accettarla. Manca un vero e proprio sostegno al caregiver, c’è tanto per il malato e poco per il familiare. Poi dipende anche dal momento in cui c’è la diagnosi, noi abbiamo iniziato subito a fare i controlli proprio perché non abbiamo sottovalutato l’episodio delle sigarette, di cui ho parlato prima, altri invece pensano che sia un lapsus, per esempio.
Che emozioni e sentimenti suscita la malattia in chi se ne prende cura?
Quando è arrivata la diagnosi di mio padre, ciò che mia madre ha provato è stata la paura. Anche semplicemente di lasciarlo solo a guidare la macchina: se per esempio non si rende conto che c’è lo stop a 100 metri, non solo rischia la sua vita ma anche delle persone che attraversano la strada. La prima emozione è proprio quella: la paura di lasciare da solo il proprio familiare. Anche spiegare al proprio caro che non può più stare da solo non è facile, dirgli che lo si controllerà h24, o dirgli che la motorizzazione ha revocato la patente per via della diagnosi.
Gestire tutto questo è difficile, perché da quel giorno non potrà più stare solo. Ci si prende carico del proprio familiare ma anche di tutta una serie di cose: a livello burocratico, economico. Quindi, è la paura… la paura di affrontare tutto da solo. Il caregiver si sente disorientato dalla diagnosi e dal decorso della malattia.
Che sostegno si riceve dalle istituzioni nel ruolo di caregiver?
Come già ho detto prima, quel “se avete bisogno” è sbagliato poiché il caregiver non si rende conto dell’importanza di ricevere sostegno. Molte volte si pensa solo al sostegno psicologico, io invece sono del parere che sia importante un supporto a 360 gradi. Molti caregiver, infatti, non conoscono le corrette manovre di assistenza.
Che tipo di sostegno bisognerebbe offrire e in che modo fornire supporto al caregiver?
Durante la prima fase della malattia il supporto dovrebbe essere dato proprio dai servizi sociali: spiegare ad esempio quali passi fare per richiedere l’accompagnamento, il voucher, come richiedere i presidi ecc. Io credo che dovrebbero attivarsi automaticamente. Poi dovrebbe attivarsi una rete: servizi sociali, Asl del tuo comune, l’Inps… per ricevere i presidi di cui si ha bisogno.
Poi ad un certo punto con la malattia che avanza servono molte cose di cui le famiglie spesso non sono a conoscenza: ci sono delle posate con una presa facilitata, i trita pastiglie, tanti non sanno, come dico io, le corrette manovre di assistenza. Ci sarebbe bisogno anche di spiegare alle persone come dare un nome alle proprie emozioni. Spesso si dice che ci si sente tristi, poi magari non è tristezza ma è rabbia, paura, senso di colpa.
Anche la nutrizionista servirebbe al caregiver per prendersi cura di se stessi e dei proprio cari. Io e mia madre abbiamo sofferto di disturbi alimentari. Io sono ingrassata notevolmente e non mi piacevo più. A livello emotivo sentivo un vuoto che colmavo con il cibo: facevo la spesa ai miei genitori e compravo qualcosa di buono per loro e per me. Li ho coccolati con il cibo e ho coccolato anche me stessa. Spesso i caregiver non seguono una corretta alimentazione: sono stanchi e non hanno voglia di cucinare anche per se stessi e saltano la cena, poi non hanno le forze per prendersi cura né degli altri e né di sé stessi.
Cosa hai fatto quando hai sentito il bisogno di essere aiutata e come ti ha fatto sentire questo bisogno?
Io ho chiesto aiuto quando ho iniziato a soffrire di attacchi di panico. Il primo l’ho avuto quando stavo preparando il mio matrimonio. Anche quello è stato organizzato in funzione di mio padre: mi sono sposata di giorno e non di sera, ho scelto una location dove ci fossero delle stanze poiché se mio padre si stancava poteva riposare. Mi sentivo in colpa anche durante il viaggio di nozze. Questo senso di colpa si è trasformato in attacchi di panico: sono finita al pronto soccorso e lì mi hanno consigliato di intraprendere una psicoterapia. Così ho iniziato e mi ha aiutato tanto, soprattutto ad accettare la diagnosi. Dopo due anni ho capito che non era un mio utente ma mio padre, che non era un caregiver ma mia madre.
Con la psicologa ho capito che ero ingrassata per la situazione che stavo vivendo. Poi nel 2019, per tutte queste ragioni ho deciso di avviare questo progetto con vari professionisti perché c’è bisogno di un’assistenza completa. Io dico spesso che si tende sempre a chiedersi come stia il proprio familiare ma non ci chiediamo mai noi come stiamo. È importante farsi questa domanda perché sarà anche una frase banale, ma se tu non stai bene non puoi prenderti cura degli altri. Nel mio percorso parlavo sempre di come stava mio padre, ma mai di come stavo io. È anche in questo che mi ha aiutato il mio percorso a chiedermi come sto, quali sono i miei bisogni, le mie esigenze, le mie paure.
Ringraziamo Stefania Verderame per averci raccontato la sua esperienza con l’Alzheimer, sia come professionista ma specialmente dal punto di vista personale di caregiver. Vi lasciamo qui il link al suo sito www.osstefania.com e al suo progetto “E noi come stiamo” per caregivers, familiari e operatori.
Dott.ssa Marina Dei, Psicologa
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