Comunicazione inclusiva: come parlare di disabilità
La comunicazione inclusiva tiene conto di tutte le differenze, pertanto è importante utilizzarla anche quando parliamo di disabilità. Per costruire un ambiente che si possa definire inclusivo bisogna infatti partire dal linguaggio. Sappiamo tutti che le parole non servono soltanto a comunicare informazioni ma è proprio attraverso queste che possiamo comprendere e nominare le differenze.
Cos’è la comunicazione inclusiva e perché risulta ancora insufficiente?
Il linguaggio inclusivo nasce dall’idea che in una società convivono tante differenze. Attraverso questo tipo di comunicazione si tenta di non escludere nessuno e di riconoscere l’esistenza di un determinato gruppo, attraverso la lingua.
Le parole mostrano la cultura, il grado di civiltà, il modo di pensare, il livello di attenzione verso i più deboli. Non è una esagerazione, cambiando il linguaggio possiamo arrivare a rompere alcuni stereotipi che rendono difficile la comprensione dell’altro diverso da noi.
La comunicazione inclusiva aderisce alle nuove visioni a proposito delle disabilità, delle condizioni di difficoltà, e nel suo complesso delle diversità, aiutandoci a superare espressioni obsolete che veicolano immagini stigmatizzanti e distorte.
Parlare di inclusività è già, di nuovo, discriminante. Quando usiamo questo termine, presupponiamo che ci sia qualcuno che include e qualcuno che viene incluso e dunque riproduciamo linguisticamente lo squilibrio tra chi è normale, chi include, e chi non è normale, e quindi viene incluso. Pierpaolo Pasolini diceva lo stesso della parola tolleranza, perché presuppone che io sia nel giusto e tu no. Tolleranza e inclusione sono atti paternalistici che vengono dall’idea che ci sia qualcuno dall’alto che deve includere qualcun altro. Ecco perché, più che di comunicazione inclusiva e di inclusività, si sta cercando una soluzione alternativa. Un linguaggio capace di restituire e rappresentare una “convivenza delle differenze”.
Allora come parliamo di disabilità?
Espressioni come ad esempio disabili, invalidi, handicappati, paraplegici, autistici, sono fortemente stigmatizzanti in quanto fanno coincidere l’essere umano con uno degli attributi che lo caratterizza. Bisognerebbe ricordare invece che la presenza di una disabilità è solo una parte della vita delle persone.
Si utilizza quindi la dicitura persone con disabilità, in quanto pone prima la persona e poi come sua caratteristica la disabilità. È utilizzato dalle istituzioni governative e non, dalla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità ed è il termine da usare indicato dal National Center on Disability and Journalism.
È importante usare il person-first language perché per secoli le persone con disabilità sono state deumanizzate e identificate soltanto con la loro supposta patologia. La persona scompariva a favore di una raffigurazione alienante in cui l’individuo era ridotto solo alla sua disabilità, problema ancora molto presente nella narrazione mediatica.
Commettiamo un errore di principio
“L’errore è di principio: nella dizione diversamente abili, …la disabilità non è una diversità, ma una condizione di vita. Ogni individuo è diverso dall’altro senza che per questo venga meno il valore, implicita una inferiorità”, scrive Silvia Galimberti, giornalista, in una tesi di laurea dedicata alla comunicazione inclusiva sulla disabilità.
C’è chi scambia malattia e disabilità, come se i termini fossero interscambiabili: la disabilità è una condizione che può essere causata da malattia, ma non è una malattia. Usare afflitto da, sofferente per parlando di una persona con disabilità la pone come una vittima, triste e da aiutare: può esserlo, come per tutti, ma non è implicito che lo sia.
In molti casi questo linguaggio presuppone l’ascolto delle minoranze, per utilizzarlo basta ricordarsi che quando abbiamo un dubbio su come riferirci a una persona, basta chiedere a lei come preferisce essere chiamata.
Fabiana Boccanfuso
Staff Comunicazione TAM
Fonti:
Linguaggio inclusivo- Università di Padova
Comunicazione inclusiva- Intervista a Vera Gheno, sociolinguista e scrittrice
La lotta all’abilismo passa per il linguaggio di Sofia Righetti
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